Opportunità win-win sotto il segno del GDPR
Ieri pomeriggio avevo voglia di un caffè, vado alla macchinetta automatica e, presa da un’euforia tecnologica, decido di scaricare un’app che, sostanzialmente, ha la stessa funzione della tradizionale chiavetta: fa risparmiare qualche centesimo e permette di non cercare per ore monetine disperse nella borsa. A quel punto mi sono bloccata. Forse per deformazione professionale, forse per carenza di caffeina, ho notato che questa app richiedeva “per permetterne il funzionamento” l’accesso al mio dispositivo, ai dati multimediali e a tutta una serie di altri dati personali.
Leggendo la lunghissima informativa privacy scopro poi che l’utilizzo dell’app non è possibile se non dando il consenso al trattamento dei dati anche ai fini di marketing, profilazione etc.
Mentre bevo il caffè (pagato con una tradizionale e anonima monetina) penso che dobbiamo ormai essere consapevoli che esiste un mercato dei dati personali e che questo mercato è caratterizzato da alto valore ed elevatissima asimmetria informativa. Nell’esempio di prima è evidente come io, per un misero sconto sul caffè, avrei (inconsapevolmente) ceduto molti dei miei dati ad un’azienda che ne avrebbe tratto valore. Ma questo succede quotidianamente: cediamo dati in cambio di giochini che ci permettono di annoiarci meno in treno o in cambio di app inutili di cui ci stanchiamo dopo un paio di settimane. Che valore diamo al giochino? Che valore diamo ai nostri dati? E, soprattutto, siamo sicuri che il valore che diamo ai nostri dati sia conforme a quello di mercato? Insomma, sappiamo quanto vale un limone, un litro di latte, un’automobile, ma non abbiamo idea di quanto valga la lista dei nostri contatti o l’elenco delle pagine Facebook a cui abbiamo messo un like. In fin dei conti, sottovalutiamo il nostro valore come persone e, più nello specifico, come soggetti che consumano e spendono.
Che valore diamo ai nostri dati? E, soprattutto, siamo sicuri che il valore che diamo ai nostri dati sia conforme a quello di mercato?
E dunque? Neghiamo tutti i consensi privacy e andiamo a vivere in un villaggio sull’Himalaya (dove comunque, vi assicuro, trovereste il wifi e gli abitanti iscritti a Facebook)? Mi sembra quanto meno irrealistico. Ognuno di noi ha ormai un’identità virtuale alla quale corrispondono interessi, preferenze e opinioni; si tratta di un processo irreversibile che porta con sé innegabili benefici e che, in fondo, ci piace.
Inoltre, è ormai evidente come dal corretto trattamento dei dati sia possibile creare valore. Se inizialmente avevo un’idea generica di questo potenziale, da quando lavoro in U-Hopper ho potuto constatare quanto valorizzare i dati e sapere come farlo possa essere la scriminante tra l’impresa che si affaccia al futuro con successo e quella che, invece, rimane indietro.
Il punto, quindi, non è demonizzare questo mercato, anzi! Occorre valorizzarlo.
La strada maestra è la creazione di un mercato più equo e trasparente dove il trattamento dei dati genera valore e viene fatto in modo legittimo ed etico riducendo il più possibile l’asimmetria informativa.
In questo processo, il faro nella notte è, almeno in Europa, il Regolamento Europeo. Il GDPR ha costretto le aziende ad occuparsi finalmente di trattamento dei dati; quest’anno tutte (o quasi) le imprese e i professionisti hanno dovuto individuare quali dati personali sono oggetto di trattamento, come e perché. Hanno dovuto valutare il rischio nel trattamento e approntare adeguate misure di sicurezza. Ne è valsa la pena? Dipende da come è stata interpretata quest’azione.
Le aziende che già conoscevano il valore dei dati hanno dovuto affrontare una serie di limitazioni. Quelle che, invece, erano del tutto inconsapevoli di ciò hanno, per la maggior parte, interpretato la normativa come un cumulo di adempimenti burocratici e spese. I soggetti tutelati hanno visto le loro caselle postali invase da informative privacy e forse hanno cominciato a chiedersi a chi mai avessero ceduto i propri dati in questi anni. Ebbene, ora che l’individuo è più tutelato e molti consensi sono stati revocati, ora che le persone cominciano ad avere un po’ di consapevolezza del valore dei propri dati, è arrivato il momento di fare dei bilanci: occorre trasformare lo sforzo in denaro!
Le aziende dovrebbero cercare di capire quali dati sono loro utili, come utilizzarli appropriatamente e come incentivare le persone ad autorizzarne il trattamento, garantendo trasparenza, sicurezza e, perché no, un giusto corrispettivo.
E, infatti, già esistono le App che permettono di vendere i propri dati (si esatto! Vendere!), selezionando quali cedere e a chi, in modo trasparente e (si spera) sicuro, in cambio di denaro o di servizi personalizzati.
L’individuo che per anni è stato soggetto passivo del sistema, può oggi diventare vero player del mercato: padrone del proprio “pacchetto dati” da cedere (con cognizione di causa) al miglior offerente.
E la via per creare una situazione win-win in U-Hopper l’abbiamo trovata! Con tapoi, i dati personali degli utenti sono utilizzati in piena trasparenza, previo consenso attivo, per formulare offerte personalizzate. Per davvero!
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